Prima estromessa dal codice di procedura civile, ora reintrodotta, in forma ancor più pregnante, riecco comparire la conciliazione in sede giudiziale.
Il recente provvedimento noto come “decreto del fare” varato dal governo in sede di decretazione d’urgenza, ha certamente il pregio di avere reintrodotto la mediazione, quale forma non più tecnicamente “obbligatoria”, ma sicuramente incentivata da procedure (la sessione introduttiva iniziale) e costi (massimo 200 euro), assolutamente convenienti alle parti, per evitare di imbattersi senza filtri di sorta in lunghi e costosi contenziosi giudiziali.
Accanto a tale ed altre importanti novità, il decreto ha altresì introdotto una norma, passata quasi inosservata, ma che invece è di notevole impatto sotto il profilo strettamente processuale. Si tratta dell’art. 185 bis c.p.c. che così testualmente recita (almeno nella versione attuale del decreto legge): “Il giudice, alla prima udienza, ovvero sino a quando è esaurita l’istruzione, deve formulare alle parti una proposta transattiva o conciliativa. Il rifiuto della proposta transattiva o conciliativa del giudice, senza giustificato motivo, costituisce comportamento valutabile dal giudice ai fini del giudizio”.
Innanzi tutto, l’intento del legislatore, come sempre, appare allineato con gli altri provvedimenti decretati al fine di incentivare la conciliazione delle liti ed arginare determinati contenziosi, limitando il gravoso carico dei processi pendenti. Tuttavia, non sempre le “buone intenzioni” sortiscono gli esiti sperati.
In effetti, il tema conciliazione diventa estremamente delicato quanto lo si declina all’interno di un processo in corso, specie se amministrato dallo stesso organo giudicante.
Invero il giudice, almeno per come lo si intende oggi, nei sistemi di civil law, è una figura istituzionalmente volta a dirimere il contenzioso, con un provvedimento finale (la sentenza) di tipo aggiudicativo, ossia idoneo ad attribuire una ragione, un torto, o un bene della vita, ad una parte ovvero all’altra.
E’ vero che è transitata nell’ordinamento la figura del giudice “conciliatore”, e che oggi il “giudice di pace” induce le masse a pensare che sia una sorta di organismo deputato alle liti “semplici” e da risolvere “amichevolmente” (ma così non è, in quanto anche il giudice di pace, decide la causa, nel novanta per cento dei casi in cui è chiamato ad intervenire nel proprio ruolo tipico ed istituzionale). E’ vero anche che, in tempi antichi, il giudice era comunque una figura deputata a conciliare le parti, prima di emettere il “verdetto” e che comunque l’ordinamento, anche recentemente, vede ed ha visto norme e principi che richiamavano il giudice ad espletare tentativi di conciliazione tra le parti. E’ vero infine che oggi, in certi ordinamenti (id est quello tedesco) vi è una forte tendenza e pressione conciliativa da parte dei giudici.
Tuttavia, siamo in Italia ed un conto è tentare una conciliazione tra le parti. Ben altro conto, è imporla.
Nemmeno ai mediatori (anzi, ben lungi da loro) è concesso “imporre” una conciliazione e solo in casi estremi, formulano alle parti una proposta.
Il giudice è chiamato alla difficile e delicata funzione, di dirimere il contenzioso ponendosi in una posizione di imparzialità ed assoluta terzietà rispetto alle parti. Sussiste, peraltro, un principio generale di divieto da parte del giudice di anticipare il giudizio ovvero di porre la propria “scienza privata” nel giudizio che gli è sottoposto.
Tali principi, in particolare il primo, rischiano gravemente di essere sovvertiti dall’impostazione della novella anche sotto il profilo logico – operativo.
Innanzi tutto, la norma è formulata in termini imperativi: il giudice, deve formulare alle parti una proposta conciliativa. Quindi, si reputa che egli dovrà farlo comunque a prescindere da ogni circostanza e cioè da chi sono le parti, dalle loro condizioni, dallo stato e tipo di giudizio.
Vediamo inoltre, “quando“, il giudice “deve” formulare questa proposta: o subito alla prima udienza, ovvero sino a quando sia esaurita l’istruzione. Entrambi i termini appaiono fuorvianti e davvero non è facile comprenderne la ratio. Subito alla prima udienza, pare troppo prematuro in quanto ancora l’istruttoria non è iniziata e il gioco della discovery come noto, si compie, quanto meno, al deposito della seconda / terza memoria di replica istruttoria ex art. 183 co. 6 c.p.c. Alla prima udienza il giudice può davvero non avere materiale sufficiente in mano, per poter formulare una proposta “ragionevole” e idonea ad essere ben vagliata (e accettata) dalle parti. Addirittura, potrebbe quasi affermarsi (e osar dire) che in tale fase davvero il giudice rischierebbe di formulare una proposta sulla base di un “sentimento istintivo” generato dal prematuro accostarsi ai primissimi atti difensivi delle parti.
D’altro canto, non è dato comprendere perché, nell’alternativa, il giudice potrebbe essere chiamato a formulare la proposta “sino a quando è esaurita l’istruzione“. E poi cosa significa questa vaga formulazione: prima dell’ultimo atto istruttorio ? Prima di transitare dall’istruttoria, all’udienza di precisazione delle conclusioni (che sarebbe forse l’interpretazione più logica) ?
In entrambi i casi (soprattutto nel primo) comunque appare evidente come il vincolo impositivo di formulazione della proposta in capo al giudice, lo espone a dei concreti rischi di anticipazione del proprio convincimento in ordine alla futura decisione che dovrà assumere.
In tali casi, la “proposta conciliativa” può riverberarsi sulle parti come un’adombrata (nemmeno troppo) minaccia circa il futuro, possibile esito del giudizio. Le parti, rammentiamolo, non hanno l’obbligo di conciliare. Per tal motivo, invischiare la conciliazione con delle conseguenze così stringenti sul piano processuale, allorché lo strumento (processo) sia in mano proprio a quell’organo che prima propone (in modo imperativo) e poi decide (del pari in modo imperativo), significa snaturare completamente lo strumento deflattivo che, invero, dovrebbe essere in mano a terzi soggetti, rispetto all’organo decidente.
In tal modo, ci si colloca al limite dei vincoli e principi dettati dalle norme sulla “ricusazione” del giudice, per i quali il giudice dovrebbe “astenersi” dal decidere (ovvero rischierebbe di essere ricusato dalla parte), ove abbia “dato consiglio o prestato patrocinio nella causa” od anche “esistano gravi ragioni di convenienza che consiglino al giudice di astenersi“. Valuterà infatti il giudice se astenersi (od essere altrimenti ricusato) dopo avere formulato una proposta che poi, si possa sostanziare in un “anticipo” del proprio convincimento tradotto in sentenza. Come invero traduce la prioritaria dottrina in argomento, la “ratio della norma sarebbe l’amor proprio del giudice che difficilmente recederebbe da una soluzione della controversia data in anticipo, in termini concreti” (Romboli, “Astensione e ricusazione”, Egi, Roma 1980), o, ancora “evitare che giudichi la controversia chi già se ne sia formata una opinione” (Dittrich, “Incompatibilità, astensione e ricusazione del giudice”, Padova, 1991).
Anche perché, il diniego delle parti (o come spesso può accadere, di una parte) rispetto alla proposta conciliativa formulata dal giudice è tutt’altro che privo di effetti per le parti che si troveranno condizionate, sia dal fatto di avere detto un “no” al giudice, sia dal fatto che tale “no”, avrà un peso e potrà averlo determinante se a seguito di istruttoria, la decisione si ponga in bilico tra le parti, potendo così il giudice contare e motivare certi passaggi della sentenza anche in base al suo libero e discrezionale convincimento.
Meglio auspicabile, in definitiva, il ricorso massiccio alla mediazione delegata dal giudice verso organismi esterni, che oggi secondo le novità introdotte, diventa vincolante e non più solo facoltativa per le parti del giudizio.
articolo postato da Avv. Filippo Martini